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BOVA: UN APOLIDE DELLA POLITICA Con il suo terzo romanzo Francesco Bova - che si definisce un "apolide della politica", un po' come Silone "senza Chiesa e senza Partito" - affronta il vecchio ma sempre attuale tema dell'intellettuale, in particolare dell'artista e dello scrittore, con il mondo della politica e dei partiti. Antonio, il protagonista di Quando chiara ha perduto la luce, è un professore universitario - un filosofo non credente - che negli anni '80 diventa deputato del Partito Comunista Italiano e che con il "Partito" vive in solitudine le stesse contraddizioni, angosce e processi che nel passato furono di Pavese, Vittorini e Pasolini. Antonio, allievo di Jean Guitton alla Sorbonne poco dopo il maggio francese e dirigente del PCI formato alla Scuola delle Frattocchie, ripercorre attraverso un intricato sistema di flashback la sua storia personale con la storia del secondo Novecento (dalle fosse di Katin, ai fatti di Ungheria fino alla primavera di Praga) e riflette sulla doppia morale comunista fino a quando decide di lasciare l'incarico di deputato e di riprendere l'insegnamento con un'altra visione del mondo, più intima e anche più mistica. Ma è anche la storia di un conflitto interiore e di coppia con la bella moglie Chiara "una cieca capace di cucire l'orlo ad una sottana ma incapace di riconoscere il mio volto" che si risolve attraverso un pellegrinaggio interiore "tra cielo e terra" e con una conversione, dopo alcuni suggestivi incontri con l'eterea suora Helenka (l'autore si riferisce a Faustina Kovalska) e Michàs, un frate polacco, nella Chiesa dei misteri di un paesino della Liguria. La vicenda si chiude con una riconciliazione, dopo una drammatica confessione dei crimini esistenziali, politici e affettivi dissetandosi simbolicamente con l'acqua di una fontanella alimentata da un lago sotterraneo sui cui è stata edificata la Chiesa dei misteri. Acqua che purifica l'anima e il corpo di Antonio e che ridona la vista a Chiara.
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